Elegia per un chiodo (di Giuseppe Lupo)

Scritto da il feb 25, 2023 in Senza categoria | 0 commenti

Elegia per un chiodo (di Giuseppe Lupo)

Che sia il buco della serratura in Prima e dopo di noi o la porta e la finestra nella Fuga degli dei o la finestra in alto nella Stanza delle nuvole, Gabriella Nube non si rassegna a fermarsi al di qua della materia narrata. Cerca un passaggio per un altrove, qualcosa che si spalanchi oltre l’aria rarefatta dei suoi dipinti e indichi un paesaggio di pace, un vocabolario di parole sussurrate.

La mano che guida questa pittura non graffia, non violenta, non rovina. È come sospesa sull’abisso del silenzio che domina ovunque le scene dei paesi, di notte come di giorno, all’ombra dei lampioni accesi o con il sole accecante delle calure. È una mano che dà significato a queste forme dell’invisibilità e non esige nulla dallo sguardo di chi osserva. Semmai chiede pietà per il silenzio di cui gli occhi sono stanchi testimoni e invoca un po’ di cautela nel passare distratti dentro i rioni di case rimaste senza vita apparente.

Il grande enigma dei quadri è contenuto nel ritorno di chi non c’è più, nell’attesa che si stampa sulle porte chiuse, nella presenza dei fantasmi che paiono danzare sui balconi disertati.

Solo pochi indizi ci danno consolazione in questi scenari desolati e sono i segni a cui si attacca la memoria quando invoca tenerezza: siano essi i cieli (che narrano di un tempo pieno in cui gli dei avevano l’aspetto di sovrani giovani e vittoriosi) o il chiodo conficcato in un muro bianco di calce, il cui intonaco è stato portato a termine di recente. Tutto comincia e finisce nel chiodo di Ricordati di me, a cui saranno stati appese chiavi, stracci, pentole di rame, perfino una lucerna a olio. Quel pezzettino di metallo è l’ultimo reperto di un mondo abbandonato a se stesso, evaso perfino dagli dei che si sono allontanati per un periodo che dura da quando è cominciata l’immensità del tempo.

Tutto ciò che finisce dentro la pittura di Gabriella Nube – quanto è contenuto dentro le case chiuse (che noi immaginiamo ancora composte di mobili tarlati e di panni impregnati di naftalina) e quanto si è disperso nelle onde frastagliate delle nuvole -; tutta l’assenza di tempo e di movimento ci dice di un’eternità perduta e inseguita, ci dice il bianco e il nero della nostra memoria che cerca continuamente appigli a cui legare i figli di una disperata ragnatela e sentirsi per un attimo ancora viva. Come fa il chiodo, appunto, che ha la pretesa di essere l’unico indizio di antiche fioriture, il solo avamposto di civiltà un tempo felici e che forse, proprio lui, solo e insignificante, due centimetri di ferro e nient’altro, conficcato nel punto più facile da raggiungere con il braccio, ha la pretesa di reggere in piedi il muro dell’intera facciata.